Il Parlamento italiano ha approvato
nelle scorse settimane la cosiddetta “legge sul dopo di noi”, che
introduce il sostegno e l’assistenza alle persone con disabilità
grave dopo la morte dei parenti che li accudiscono.
Ma molte sono le realtà del privato
sociale che lavorano con le famiglie per aiutare le persone con
disabilità a costruire percorsi di autonomia.
Un viaggio tra alcune fondazioni,
cooperative e associazioni che da tempo lavorano sul “dopo di noi”
già “durante noi”.
Senza dimenticare la voce delle famiglie.
Ascolta qui il reportage:
Senza dimenticare la voce delle famiglie.
Ascolta qui il reportage:
Negli scorsi giorni il Parlamento
italiano ha approvato la cosiddetta “legge sul dopo di noi”, e
cioè un provvedimento – aspettato da molto tempo da chi si occupa
di disabilità - che introduce il sostegno e l’assistenza alle
persone con disabilità grave dopo la morte dei parenti che li
accudiscono.
Di solito sono i genitori, sulle cui spalle di solito sta tutto il peso di preoccuparsi di cosa succederà ai figli non autosufficienti “dopo di loro”, appunto.
Di solito sono i genitori, sulle cui spalle di solito sta tutto il peso di preoccuparsi di cosa succederà ai figli non autosufficienti “dopo di loro”, appunto.
Criticata da una parte del mondo
dell'associazionismo, accolta con entusiasmo da altri, quel che è
certo è che si va a colmare un vuoto giuridico.
Lucio Moderato è direttore dei Servizi
per l'autismo della Sacra Famiglia, istituto di Cesano Boscone che da
molti anni costruisce con le persone che segue percorsi di
accompagnamento a una vita più indipendente possibile.
A lui abbiamo chiesto un commento alla
legge.
«Con questa legge
finalmente ci si rende conto che anche le persone con autismo e
disabilità intellettiva diventano adulte.
E diventando
adulte hanno bisogno di servizi il più possibile vicini alla
normalità. La normalità è una casa, non è una casa di riposo, non
è un istituto: è una casa.
Le persone con
autismo hanno bisogno delle stesse cose che servono a tutti: scuola,
lavoro, casa.
La legge prende
atto di questo».
L’obiettivo del provvedimento è
garantire la massima autonomia e indipendenza delle persone disabili,
consentendogli per esempio di continuare a vivere nelle proprie case,
se possibile, o in altre comunità o case gestite da associazioni ed
evitando il ricorso all’assistenza sanitaria.
«Sacra Famiglia
si è posta il problema delle case per le persone con disabilità
intellettiva già vent'anni fa. Noi gestiamo comunità alloggio, case
normali in cui si fa la vita normale: imparare a fare la spesa, farsi
da mangiare, azioni quotidiane, con l'aiuto di educatori che
promuovono questi interventi in modo che le persone arrivino al
massimo livello possibile di indipendenza».
Se con le persone con un certo tipo di
disabilità più lieve quella della residenza autonoma può essere
più facile, con chi è affetto da autismo le cose si complicano.
«Nelle case
alloggio con le persone autistiche usiamo istruzioni illustrate per
aiutarli a imparare la successione delle azioni da compiere per
lavarsi, per vestirsi, per imparare a mangiare... Solitamente queste
persone sono più facilitate da supporti visivi: una serie di azioni
scritte a parole a volte non le capiscono, mentre se gliela faccio
vedere attraverso la serie di fotografie delle azioni da compiere è
molto più comprensibile. Un po' come se fossero le istruzione del
montaggio dei famosi mobili».
Daniela Scapoli è una professionista
della comunicazione, è una mamma, è una blogger.
Nato come mommy blog, il suo La bionda e la bruna si è trasformato nel tempo in un blog che – come lo descrive lei – parla di un autismo. Quello di sua figlia, soprannominata “la bruna” per tutelarne la privacy, che oggi ha 7 anni.
Nato come mommy blog, il suo La bionda e la bruna si è trasformato nel tempo in un blog che – come lo descrive lei – parla di un autismo. Quello di sua figlia, soprannominata “la bruna” per tutelarne la privacy, che oggi ha 7 anni.
«A mia figlia la
diagnosi è stata fatta quando aveva tre anni e mezzo. La diagnosi
attualmente è di autismo infantile con un ritardo cognitivo. È un
autismo lieve nel senso che non ha comportamenti-problema che spesso
rendono più difficile la gestione di un bambino con autismo: mangia
tutto, mangia da sola, è relativamente autonoma anche se ha sempre
bisogno di un adulto di riferimento che la accompagni nelle cose
quotidiane. A scuola ovviamente ha sia l'insegnante di sostegno, sia
l'assistente alle autonomie».
Quando si ha un figlio con una diagnosi
di autismo – o più in generale una disabilità – è naturale
pensare che per tutta la propria vita gli si starà accanto.
Ma ci si chiede anche come sarà la sua vita adulta. Sarà autonomo? Su chi potrà contare?
A Daniela abbiamo chiesto se loro, come genitori, abbiano iniziato già a pensarci.
Ma ci si chiede anche come sarà la sua vita adulta. Sarà autonomo? Su chi potrà contare?
A Daniela abbiamo chiesto se loro, come genitori, abbiano iniziato già a pensarci.
«Ci pensiamo il
meno possibile perché è difficile pensare così in avanti. È
difficile emotivamente, ma è difficile anche perché in questi casi
di autismo infantile è quasi impossibile prevedere come sarà il suo
sviluppo.
L'ipotesi più
probabile è che finché ci saremo noi lei possa arrivare a un punto
sufficientemente autonomo da potersi gestire parte della vita da
sola, ma magari con la presenza nostra vicina. Ad esempio che possa
vivere da sola, in un appartamento suo, ma comunque vicino a quello
dove saremo noi. Questo è l'unico pensiero che facciamo.
Naturalmente
questo pensiero comparirà per forza e prepotentemente».
Il desiderio più grande, di solito, è
che possano condurre una vita il più autonoma possibile, con accanto
persone che sappiano aiutarli a vivere nel mondo, e non confinati in
spazi “riservati”.
«Io mi auguro che
si saranno delle persone, associazione, interventi che aiutino
l'inclusione. La cosa più disastrosa che possa accadere è che
prendano mia figlia e la tengano solo insieme a persone come lei a
non far niente tutto il giorno. Vorrei che trovino per lei le cose
che può fare, perché sicuramente potrà fare delle cose».
Cascina Biblioteca è una cooperativa
sociale che lavora nella città di Milano con i disabili e le loro
famiglie cercando soprattutto di proporre e costruire dei percorsi di
crescita e distacco dalla famiglia.
Gestiscono diverse residenze, alcune
delle vere e proprie piccole comunità, altri sono appartamenti dove
vivono tre o quattro persone, in quasi completa autonomia, aiutati
solo da un educatore che passa poche ore al giorno.
Caterina Costagliola è la responsabile
delle residenze.
«Il nostro
approccio è di pensare al dopo di noi già prima, durante noi, in
modo da non trovarsi nel momento critico in cui la persona si trova
senza genitori e messo in qualche luogo che nemmeno conosceva, e la
vita diventa dura così».
Ma quando le famiglie iniziano a
pensarci, a costruire il dopo?
«Ci sono famiglie
che da tempo riflettono su questo, che si ritrovano, parlano, hanno
una figura di riferimento.
Ma la maggior
parte arriva quando c'è l'emergenza, uno dei genitori deve andare in
ospedale, o viene a mancare, oppure è rimasto solo e non ce la fa
più.
Noi cerchiamo di
spingere a questa riflessione: pensateci, provate a far vivere fuori
casa i vostri figli in un momento di serenità, perché è solo in
condizioni tranquille che c'è il tempo di capire davvero cosa va
bene e cosa no per la persona».
La cosa importante, per loro, è che
non sono ospiti. Sono “a casa loro”.
«Non sono
comunità, sono le loro case, decidono loro cosa fare liberamente in
casa loro quando tornano a casa dopo una giornata di impegni».
Non per tutti va bene lo stesso
progetto. Cascina Biblioteca ha delle piccole comunità, come la
Combriccola, o Fiamma, dove vivono da sette a dieci persone.
Altri piccoli appartamenti come quello di viale Certosa, al 19, dove quattro ragazze sono andate a vivere insieme “come le persone grandi”, o altri percorsi personalizzati per chi può vivere da solo, ma ha bisogno di una rete di sostegno intorno.
Altri piccoli appartamenti come quello di viale Certosa, al 19, dove quattro ragazze sono andate a vivere insieme “come le persone grandi”, o altri percorsi personalizzati per chi può vivere da solo, ma ha bisogno di una rete di sostegno intorno.
Si prova, per trovare la strada giusta.
«Ci vuole il
tempo per fare delle sperimentazioni: capire se una casa, un gruppo
va bene per lui o lei, oppure se ha bisogno di un luogo più o meno
strutturato, con maggiore o minore aiuto da parte dell'educatore. Ci
vuole insomma il tempo per modulare una soluzione a seconda dei
bisogni».
Una di
queste comunità si chiama Piuma: è una vera e propria casa, un
appartamento in un condominio in via Celentano, zona Crescenzago. Ci
vivono quattro donne, che vanno dai 52 ai 30 anni.
«In Casa Piuma
vive la Cinzia che è in età da pensione, di giorno frequenta il
nostro centro. Ci sono Monica e Simona che lavorano in aziende
profit, mentre l'ultima arrivata è Rosa, che al momento è alla
ricerca di un lavoro».
Cinzia è la
veterana dell'appartamento. Qualcosa in lei è scattato quando,
morta la mamma, si è trovata senza più la sua casa di origine.
All'inizio c'è stato smarrimento, però poi si è resa conto che la
sua casa è questa.
«Qualche tempo fa
la mamma è morta e l'assistente di Cinzia l'ha messa in vendita.
Inizialmente lei ci è rimasta male, aveva un po' di magone per la
sua casa che non c'era più. Ma poi l'occasione le è servita per
rendersi conto che quello era l'appartamento della mamma, il suo
invece era Piuma, e da allora è scattato qualcosa che l'ha fatta
davvero sentire “a casa”».
E la prova è
arrivata quando, un Natale di un paio di anni fa, si è rotta un
braccio. Gli educatori non volevano lasciarla sola per le vacanze,
mentre le sue compagne erano tornate a casa della famiglia per le
feste, e l'hanno invitata in un'altra delle loro comunità. Ma lei
non vedeva l'ora di tornare a casa sua, in Piuma.
«Non si sentiva a
posto qui in comunità, quando ha potuto tornare in Piuma si è
ripresa e ha proprio cambiato faccia. Era tornata a casa sua, e stava
decisamente meglio».
Cedro, Mandorlo, Betulla o Ginepro. Non
sono alberi, ma anche queste case.
Sono, queste, gestite dalla coopertiva
Filo di Arianna, che di appartamenti così, a partire dal 2008, ne ha
aperti sette, dislocati tra Milano e hinterland.
In queste case vivono insieme tre o
quattro persone con problemi di salute mentale, perché anche per
loro si pone il problema. Qui riescono a condurre una vita quasi
autonoma, con il supporto e l'aiuto di un educatore che trascorre con
loro alcune ore della giornata.
Chi vive qui di solito è giovane, e
l'obiettivo è aiutarli a impostare una vita il più possibile
autonoma prima che la malattia cronicizzi. Oppure persone che hanno
già compiuto un percorso riabilitativo e stanno camminando verso
l'indipendenza. O ancora, uomini o donne che hanno trovato un loro
equilibrio dal punto di vista clinico e devono essere aiutati a
mantenerlo.
Rita è una delle educatrici che li
segue.
«Case vere e
proprie, appartamenti dove persone che hanno un disagio psichico
possono vivere una vita il più possibile “normale”. Case che
permettono a persone, che da sole non riescono a farcela, di trovare
con l'aiuto di un operatore una chiave di lavoro per di migliorare la
propria vita, e magari poter poi proseguire con le proprie gambe.
Il nostro lavoro è
aiutarli a imparare ad avere cura di sé e degli ambienti, a gestire
i propri soldi, a fare la spesa, a farsi da mangiare in modo semplice
ma sano. Insomma, tutte quelle attività che migliorano l'autonomia,
e soprattutto la loro vita».
Qui chiudiamo questo nostro viaggio
speciale alla scoperta di comunità, associazioni e soprattutto
famiglie, le vere protagoniste, di questo percorso verso il dopo
di noi: una strada che, per arrivare al dopo, è già iniziata,
da tempo, durante noi.
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