perché tu sappia
nella vita saper trovare
e dare amore
ciao
Luigi”
Chi se lo ricorda, Gigi? È ancora lì?
La mattina in cui mi scrisse questa
dedica era una come tante mattine degli anni universitari passate a
studiare in biblioteca centrale della Statale. Avevo in mano Gita al
faro di Virginia Woolf, e lui me lo prese e ci scrisse sopra, quando
entrai e puntai l'ultima fila in fondo a sinistra per salutarlo. Un
piccolo rito a cui teneva tanto. Quanti dei ragazzi che riempivano la
biblioteca ogni giorno sapevano chi fosse?
Lui era lì, tutti i giorni, arrivava
al mattino presto e se ne andava a metà pomeriggio. Gli occhiali
tondi, l'aria stralunata e probabilmente meno anni di quanti ne
dimostrasse. Cinquanta, sessanta? Studiava inglese, diceva, davanti a
un libro di testo delle scuole medie. Trascriveva sul suo quaderno le
cose base, verbo essere e pronomi personali, gli stessi da anni. Ogni
tanto alzavi la testa e lo vedevi, là in fondo, con lo sguardo
perso nel vuoto.
Di sé, era difficile cavargli
qualcosa. Che portasse dentro di sé le tracce di un disagio psichico
era evidente, per questo Gigi, lì in Statale, era conosciuto e
coccolato da tutti. Il resto della sua vita, se non era proprio vera,
lo era almeno per lui. Forse è questo quello che conta.
Raccontava che da ragazzo lo avevano
mandato in manicomio, che si stava proprio male, che se eri poco
matto lo diventavi tanto, che gli facevano l'elettroshock, lì
dentro. Che è stato dopo quell'esperienza, di qualche mese, che
aveva cominciato a scrivere poesie. Un po' come Alda Merini, no? Ma
lui era solo Gigi.
Si metteva a piangere, sfilava gli
occhiali e si asciugava col fazzoletto. Silenzio. Aspettavi che
passasse. E poi riprendeva. Voleva sapere tutto di te, gli
interessava sapere soprattutto cosa stessi studiando, quando fosse la
data dell'esame e – maledizione – se la ricordava. Voleva sapere
il voto preso, e se non era un 30 e lode si arrabbiava, fino alle
lacrime. “Perché studiare è importante, dovete capirlo, voi che
potete!” strillava, con mezza biblioteca che si girava a vedere che
diavolo stesse succedendo. Le bugie, a quel punto si sprecavano.
“Cos'hai preso?”. Trenta e lode. “Sicuro?”. Certo. Scusa
Gigi, ma ora devo andare a studiare, mi metto là guarda.
E poi, nel pomeriggio, si alzava,
raccoglieva la penna, il libro, il quaderno, li riponeva nella
cartella come uno studente diligente, e andava a casa.
Dove abiti, Gigi? “Qui vicino”. E
come ci vai? “In tram”. Ma con chi stai, con chi abiti? “Con la
mamma”.
Lui usciva, e io stavo a pensare a
quella anziana donna che tutti i giorni aspettava a casa, da anni, il
suo bambino mai cresciuto che tornava da scuola.
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