C'era una volta, in un paese lontano
lontano, un villaggio in cui le strade portavano il nome dei fiori:
c'era la via dei gigli, la via dei giacinti, la via dei garofani, la
via delle rose.
Al Villaggio dei fiori c'erano cinquantaquattro casette, tutte uguali, con le pareti di paglia e intonaco, come le casine dei folletti, e tutti qui vivevano felici...
Al Villaggio dei fiori c'erano cinquantaquattro casette, tutte uguali, con le pareti di paglia e intonaco, come le casine dei folletti, e tutti qui vivevano felici...
No, proprio tutti no.
Perché il Villaggio dei fiori, Milano
sud-ovest, racconta una storia popolare.È vero che le strade hanno
nomi poetici. Ed è vero anche che in queste strade ci sono 54
villette con il loro giardinetto.
Ma si tratta di casette prefabbricate,
dalle pareti sottili e dal pavimento di pochi metri quadri,
appoggiate provvisoriamente su un terreno comunale negli anni ’50 e
poi abitate dalle famiglie lombarde e venete degli sfollati e dei
reduci di guerra. Così provvisorie che sono ancora lì.
Tra chi le abita, qualcuno si è
arrangiato e ha provveduto da solo a mettere il bidet in bagno, a
rifare i pavimenti, a cambiare infissi e vetri, a sostituire i
caloriferi. Fino a pochi anni fa avevano anche l'amianto sul tetto.
La zona è popolare, sicuramente non
signorile, ma di certo non tra le più disagiate o con estreme
emergenze sociali.
Eppure no, non tutti qui sono felici.
Di sicuro non lo era Giorgia, che qualche anno fa, insieme a mamma e
papà, aveva minacciato di dar fuoco a una di queste casette, la sua.
Beh, a dire la verità non era
esattamente la sua.
Giorgia viveva lì da quando era
maggiorenne, insieme al nonno che abitava in quella casa fin dagli
anni ’50.Poi, dopo qualche anno, l’anziano morì, e a lei diedero
l’ingiunzione di sfratto, come se fosse un’abusiva; prima la
sorpresa, poi la rabbia, infine la disperazione: che cosa aveva
sbagliato? Perché non aveva diritto di rimanere a vivere in quella
casa in cui erano vissuti i nonni, era nata e cresciuta la mamma, e
che ora sentiva sua, avendo investito personalmente dei soldi per
fare dei lavoretti e avendo sempre pagato l'affitto? L’errore di
Giorgia fu uno solo, prettamente burocratico: lei era in regola con
la residenza e i requisiti richiesti, ma mancava una carta. Non
sapeva che ci volesse quella dichiarazione, nessuno gliel'aveva
chiesta.
E per quella era arrivato lo sfratto.
La volevano mandare via, come un’occupante abusiva. Giorgia non lo
poteva tollerare, suo padre nemmeno, la madre anche: una gara
familiare a chi era più arrabbiato, più incattivito, meno disposto
a sopportare. Si barricarono persino dentro la villetta con quattro
taniche di benzina e la minaccia di bruciare tutto.
Certo, il provvedimento poteva essere
ingiusto, ma colpiva questo considerare propria una casa in cui
questa famiglia abitava sì da mezzo secolo, ma tutto sommato era di
proprietà comunale.
Ma il ragionamento sembrava correre su
un altro piano ancora.
Il giorno dello sfratto, a sgomberare,
arrivò un furgone di traslochi con una squadra di operai
nordafricani. Oltre al danno la beffa.
«A te sembra accettabile che vengano
qui, loro, stranieri, a buttarmi fuori da casa mia? Loro entrano e
spostano i miei mobili, le mie cose, i miei vestiti, che schifo!»
protestava indignata la ragazza. «E poi qui metteranno ad abitare
sicuramente una famiglia di immigrati! Io non lo accetto. Se esco di
qui, dietro di me resterà solo cenere - diceva Giorgia. - Se non
posso vivere io qui, allora non ci vivrà più nessuno».
Come in quelle malate storie, chiamate
d'amore, che poi amore proprio non è.
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