venerdì 1 marzo 2013

Fermata: Piazza Napoli


L'ingresso del carcere Beccaria
«Piazza Napoli» annuncia la voce registrata che tiene il conto delle fermate. «Permesso», le fa eco Lucia che cerca di guadagnarsi l'uscita. La sera è gelida e scende persino qualche fiocco di neve, nonostante ormai siano già i primi di marzo. Ha appuntamento con alcuni compagni di università in un locale del Giambellino, ma è in anticipo quando arriva davanti al ristorante, così decide di fare qualche passo sul marciapiede per cercare di scaldarsi un po'.
Non sa che cosa esattamente abbia attirato la sua attenzione: se lo stato malmesso dell'edificio, che si vede a occhio essere un caseggiato popolare, o il numero civico, che le fa scattare in testa un ricordo. Lorenzo abitava lì, fino alla primavera scorsa. Almeno così le aveva raccontato.
Il caseggiato rosso scuro occupa quasi tutto l'isolato, decine di appartamenti popolari che hanno raccolto, negli anni, un'umanità precaria e dolente. Immigrati stipati in camere in subaffitto, case occupate, anziani soli, famiglie disastrate. Anche la famiglia di Lorenzo rientrava nel numero.
Lucia l'ha incontrato al Centro di prima accoglienza del carcere minorile Beccaria, dove fa la volontaria una volta alla settimana.
I Cpa, introdotti da una legge di vent'anni fa, ospitano i minori dai 14 ai 17 anni fermati o arrestati in flagranza di reato, per i quali non è possibile la consegna ai genitori o agli affidatari, che vi restano solo per qualche giorno, in attesa dell'udienza di convalida del giudice. Insomma, è una sorta di primo anello della catena della giustizia minorile. Il gruppo di volontari di cui fa parte Lucia, invece, entra nel Cpa la sera, condivide con i ragazzi fermati il pasto e il dopo cena, giocando al biliardino, guardando un film oppure, semplicemente, chiacchierando. E loro hanno notato che i minori italiani sono sempre tanti, anzi, sono tornati a essere più di quelli stranieri.
La maggior parte di loro viene da quartieri periferici e storicamente difficili: Quarto Oggiaro, il Giambellino, la Barona, e da alcuni comuni dell'hinterland terra di immigrazione negli anni '60. «Il Giambellino era difficili quaranta anni fa, ed evidentemente è una zona a rischio ancora oggi – racconta Lucia all'amica che nel frattempo l'ha raggiunta –. Gli adolescenti qui spesso non conoscono alternative, non considerano la scuola o il lavoro una possibilità concreta. Hanno amici, fratelli maggiori, il padre che sono già stati in carcere, l'esperienza giudiziaria è considerata normale, è il prezzo da pagare per avere in fretta soldi facili».
Di Lorenzo l'aveva colpita lo sguardo: terribile, lo descrive. Lo aveva incontrato una sera al Cpa. Lui se ne stava in disparte a fissare la tv senza vederla. Era solo, era stato arrestato per rapina a mano armata con alcuni compagni maggiorenni, che erano stati portati al San Vittore. «La mia vita è un fallimento», continuava a ripetere guardando nel vuoto. Era alla sua prima rapina, e aveva accettato di partecipare perché ormai alla disperazione.
Quando lui era piccolo il padre era stato arrestato per associazione mafiosa, in Calabria, dove vivevano allora, e dopo un po' la madre aveva deciso di trasferirsi con i due figli al Nord per provare a ricostruire qualcosa lontano da casa. Una scelta che non si era rivelata felice: per lui crescere al Giambellino, in una casa popolare, dove nessuno intorno a loro aveva saputo o potuto aiutarli, non era stato facile. Per la madre, che da sola in una città così diversa e sconosciuta era caduta in depressione. Per Katia, la figlia maggiore, che per qualche tempo si era presa la responsabilità di prendersi cura della famiglia, ma poi, ancora giovanissima, era rimasta incinta e se n'era andata di casa, lasciando Lorenzo e la madre in balia di loro stessi.
Per questo i due fratelli avevano litigato, lui credeva che la sorella non avrebbe dovuto lasciarlo solo, ancora minorenne e con una madre che era da accudire come fosse una bambina. Aveva lasciato la scuola tempo prima e il mondo del lavoro sembrava non volerlo.
Il padre era uscito di prigione quando Lorenzo aveva quindici anni. Si erano incontrati, volevano provare a costruire un rapporto normale tra padre e figlio. Lorenzo aveva addirittura sognato che potessero tornare a essere una famiglia, vivendo tutti e tre insieme, la mamma, lui e il papà a Milano. Ma non era durata molto, perché un infarto se l'è portato via pochi mesi dopo.
«La mia vita è un fallimento – continuava a ripetere lui quella sera – è stato un fallimento il rapporto con mio padre, che non ho praticamente mai conosciuto, con mia sorella con cui non parlo più, con mia madre, che praticamente non esiste. Non ho una mamma che mi aiuti a ricominciare la scuola, che mi sappia consigliare su come trovare un lavoro, che mi accompagni dall'assistente sociale: non ho nessuno. Io lo so che ho sbagliato, che quello che ho combinato non è giusto, ma non vedevo alternative. E in un quartiere così vieni facilmente messo in mezzo a brutti giri».
Più tardi Lucia aveva chiesto di lui ai responsabili del Cpa: era stato affidato a una comunità per minori e aveva provato a “ricominciare”.

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