L'ingresso del carcere Beccaria |
Non sa che cosa esattamente abbia
attirato la sua attenzione: se lo stato malmesso dell'edificio, che
si vede a occhio essere un caseggiato popolare, o il numero civico,
che le fa scattare in testa un ricordo. Lorenzo abitava lì,
fino alla primavera scorsa. Almeno così le aveva raccontato.
Il caseggiato rosso scuro occupa quasi
tutto l'isolato, decine di appartamenti popolari che hanno raccolto,
negli anni, un'umanità precaria e dolente. Immigrati stipati
in camere in subaffitto, case occupate, anziani soli, famiglie
disastrate. Anche la famiglia di Lorenzo rientrava nel numero.
Lucia l'ha incontrato al Centro di
prima accoglienza del carcere minorile Beccaria, dove fa la
volontaria una volta alla settimana.
I Cpa, introdotti da una legge di
vent'anni fa, ospitano i minori dai 14 ai 17 anni fermati o arrestati
in flagranza di reato, per i quali non è possibile la consegna
ai genitori o agli affidatari, che vi restano solo per qualche
giorno, in attesa dell'udienza di convalida del giudice. Insomma, è
una sorta di primo anello della catena della giustizia minorile. Il
gruppo di volontari di cui fa parte Lucia, invece, entra nel Cpa la
sera, condivide con i ragazzi fermati il pasto e il dopo cena,
giocando al biliardino, guardando un film oppure, semplicemente,
chiacchierando. E loro hanno notato che i minori italiani sono sempre
tanti, anzi, sono tornati a essere più di quelli stranieri.
La maggior parte di loro viene da
quartieri periferici e storicamente difficili: Quarto Oggiaro, il
Giambellino, la Barona, e da alcuni comuni dell'hinterland terra di
immigrazione negli anni '60. «Il Giambellino era difficili
quaranta anni fa, ed evidentemente è una zona a rischio ancora
oggi – racconta Lucia all'amica che nel frattempo l'ha raggiunta
–. Gli adolescenti qui spesso non conoscono alternative, non
considerano la scuola o il lavoro una possibilità concreta.
Hanno amici, fratelli maggiori, il padre che sono già stati in
carcere, l'esperienza giudiziaria è considerata normale, è
il prezzo da pagare per avere in fretta soldi facili».
Di Lorenzo l'aveva colpita lo sguardo:
terribile, lo descrive. Lo aveva incontrato una sera al Cpa. Lui se
ne stava in disparte
a fissare la tv senza vederla. Era solo, era stato arrestato per
rapina a mano armata con alcuni compagni maggiorenni, che erano stati
portati al San Vittore. «La mia vita è un fallimento»,
continuava a ripetere guardando nel vuoto. Era alla sua prima rapina,
e aveva accettato di partecipare perché ormai alla
disperazione.
Quando lui era piccolo il padre era
stato arrestato per associazione mafiosa, in Calabria, dove vivevano
allora, e dopo un po' la madre aveva deciso di trasferirsi con i due
figli al Nord per provare a ricostruire qualcosa lontano da casa. Una
scelta che non si era rivelata felice: per lui crescere al
Giambellino, in una casa popolare, dove nessuno intorno a loro aveva
saputo o potuto aiutarli, non era stato facile. Per la madre, che da
sola in una città così diversa e sconosciuta era caduta
in depressione. Per Katia, la figlia maggiore, che per qualche tempo
si era presa la responsabilità di prendersi cura della
famiglia, ma poi, ancora giovanissima, era rimasta incinta e se n'era
andata di casa, lasciando Lorenzo e la madre in balia di loro stessi.
Per questo i due fratelli avevano
litigato, lui credeva che la sorella non avrebbe dovuto lasciarlo
solo, ancora minorenne e con una madre che era da accudire come fosse
una bambina. Aveva lasciato la scuola tempo prima e il mondo del
lavoro sembrava non volerlo.
Il padre era uscito di prigione quando
Lorenzo aveva quindici anni. Si erano incontrati, volevano provare a
costruire un rapporto normale tra padre e figlio. Lorenzo aveva
addirittura sognato che potessero tornare a essere una famiglia,
vivendo tutti e tre insieme, la mamma, lui e il papà a Milano.
Ma non era durata molto, perché un infarto se l'è
portato via pochi mesi dopo.
«La
mia vita è un fallimento – continuava a ripetere lui quella
sera – è stato un fallimento il rapporto con mio padre, che
non ho praticamente mai conosciuto, con mia sorella con cui non parlo
più, con mia madre, che praticamente non esiste. Non ho una
mamma che mi aiuti a ricominciare la scuola, che mi sappia
consigliare su come trovare un lavoro, che mi accompagni
dall'assistente sociale: non ho nessuno. Io lo so che ho sbagliato,
che quello che ho combinato non è giusto, ma non vedevo
alternative. E in un quartiere così vieni facilmente messo in
mezzo a brutti giri».
Più tardi Lucia aveva chiesto di
lui ai responsabili del Cpa: era stato affidato a una comunità
per minori e aveva provato a “ricominciare”.
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