lunedì 18 febbraio 2013

Fermata: Ponte delle Milizie – Ripa Ticinese


Ha lo sguardo smarrito e perso nel vuoto, Aisha, come se il suo corpo stanco fosse seduto su un sedile della 90 ma la sua anima fosse lontana, migliaia di chilometri più a sud, in quel corno di terra africana che ha lasciato cinque anni fa. Improvvisamente si riscuote e guarda fuori dal finestrino, riconoscendo la strada che diventa salita all'inizio del ponte delle Milizie: è la sua fermata. Si alza, lasciando il posto a un omino con una borsa rossa, scende dal filobus, si risistema in testa il suo velo bianco, incurante dell'afa che sale dal canale, poi prende l'alzaia Naviglio Grande e si incammina verso la chiesetta di San Cristoforo.
Sottile e diritta, un viso fine e la pelle caffelatte delle donne eritree, Aisha non sembra schiacciata dalle umiliazioni di un viaggio infinito e dal dolore che la sta scavando dentro da tre anni.
I suoi fratelli e sorelle in Eritrea erano stati reclutati nell'esercito, scaraventati nella guerra infinita contro l'Etiopia, e non erano più tornati. Aisha sapeva che presto sarebbe toccato anche a lei, che l'avrebbero chiamata, che l'avrebbero mandata a morire. Lei non ci stava però. Così, poco più che ventenne, decise di scappare dal suo paese, lasciando i suoi genitori, lasciando il resto della famiglia ancora viva. Era una scommessa che aveva poche possibilità di essere vinta, ma non credeva di avere alternative.
Così partì insieme ad altri, viaggiando in gruppi che si sarebbero divisi e riformati più volte in anni, perdendo per strada qualcuno e raccogliendo qualcun altro, attraversando a piedi il deserto del Sudan, e accumulando centinaia di fatiche che non vuole più ricordare. E poi la Libia, quello scoglio così pesante per tutti i migranti che dall'Africa cercano di raggiungere l'Europa: lì Aisha fu incarcerata, spostata più volte in diversi centri di detenzione, violentata e picchiata, trattata come una schiava dalle guardie e dai soldati. Infine, finalmente, la costa del Mediterraneo: la ragazza era convinta di essere quasi arrivata, ma non sapeva che il peggio doveva ancora venire.
All'altezza della chiesa di San Cristoforo Aisha svolta a destra, nell'ansa della strada che forma una piccola piazzetta: all'angolo della strada, al civico 3, da qualche tempo il comune di Milano ha aperto uno spazio diurno gestito dalla cooperativa Farsi Prossimo, dedicato ai rifugiati e ai richiedenti asilo. È qui che sta andando la donna, che ha appena ottenuto lo status di rifugiata politica.
Paolo, responsabile del centro, le va incontro e prova la tentazione di abbracciarla per consolarla: lui sa perché Aisha è così triste in questi giorni, gliel'ha raccontato lei stessa poco tempo fa.
In questa settimana cade il terzo anniversario del suo quarto viaggio dalla Libia verso le coste dell'Italia. Quarto di cinque, perché solo al quinto tentativo di attraversare il mare è riuscita ad arrivare fino a Lampedusa; le altre volte, invece, sono sempre stati intercettati e riportati indietro.
Ma quel quarto viaggio lei se lo porterà addosso per sempre. Erano partiti in ottanta su una barca stracolma, quasi tutti uomini, più sedici donne. Una di loro era persino incinta. Una volta partiti avevano scoperto di avere provviste e acqua sufficienti per due soli giorni. Il viaggio fu tremendo: lo scafista era inesperto, forse ai suoi primi viaggi, non avevano strumenti di bordo e ben presto persero la rotta. Rimasero in mare una settimana, prima di essere recuperati e riportati indietro. Ma in quella lunghissima, tragica settimana morirono in molti. Tra le donne sopravvisse soltanto lei. Ogni volta che ripensa a quel viaggio riprova la stessa angoscia di vedere i suoi compagni morire accanto a lei senza poter fare nulla, rivede i cadaveri buttati in mare, vive la fatica di dimenticare e andare avanti.
Domani, proprio in occasione di questo terzo anniversario, si ritroverà con alcuni compagni di quel viaggio maledetto per pregare insieme per chi non ce l’ha fatta, una sorta di funerale per quei corpi che non l’hanno mai avuto e sono rimasti in fondo al mare.
Paolo, quando ha ascoltato la sua storia, è corso con la mente ai racconti dei reduci dei campi di concentramento nazisti: quella fatica di andare oltre, quel senso di colpa per essere sopravvissuti ai compagni pur senza avere alcun merito in più, quella domanda di senso sulla vita che resta per sempre.
Eppure, nonostante tutto, lei trova la forza di andare avanti. Per Aisha, e per chi ha alle spalle un viaggio come il suo, Lampedusa è un punto di arrivo, il raggiungimento dell’Europa, di una vita migliore. Per Paolo, e per gli operatori sociali che come lui lavorano con il mondo dei migranti e dei richiedenti asilo, l’isola siciliana è il punto di partenza per una nuova vita, e il loro compito è quello di facilitare questa nuova esistenza, con corsi di italiano e percorsi di inserimento lavorativo.
“Ma con calma” - pensa Paolo girando lo sguardo sugli altri ospiti del centro - “chi arriva qui spesso è proprio esausto da un viaggio che ha occupato un pezzo importante della loro vita. Diamo loro una tregua, diamo loro un tempo per riposare questi animi sfiniti”.

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