Ha lo sguardo smarrito e perso nel
vuoto, Aisha, come se il suo corpo stanco fosse seduto su un sedile
della 90 ma la sua anima fosse lontana, migliaia di chilometri più
a sud, in quel corno di terra africana che ha lasciato cinque anni
fa. Improvvisamente si riscuote e guarda fuori dal finestrino,
riconoscendo la strada che diventa salita all'inizio del ponte delle
Milizie: è la sua fermata. Si alza, lasciando il posto a un
omino con una borsa rossa, scende dal filobus, si risistema in testa
il suo velo bianco, incurante dell'afa che sale dal canale, poi
prende l'alzaia Naviglio Grande e si incammina verso la chiesetta di
San Cristoforo.
Sottile e diritta, un viso fine e la
pelle caffelatte delle donne eritree, Aisha non sembra schiacciata
dalle umiliazioni di un viaggio infinito e dal dolore che la sta
scavando dentro da tre anni.
I suoi fratelli e sorelle in Eritrea
erano stati reclutati nell'esercito, scaraventati nella guerra
infinita contro l'Etiopia, e non erano più tornati. Aisha
sapeva che presto sarebbe toccato anche a lei, che l'avrebbero
chiamata, che l'avrebbero mandata a morire. Lei non ci stava però.
Così, poco più che ventenne, decise di scappare dal suo
paese, lasciando i suoi genitori, lasciando il resto della famiglia
ancora viva. Era una scommessa che aveva poche possibilità di
essere vinta, ma non credeva di avere alternative.
Così partì insieme ad
altri, viaggiando in gruppi che si sarebbero divisi e riformati più
volte in anni, perdendo per strada qualcuno e raccogliendo qualcun
altro, attraversando a piedi il deserto del Sudan, e accumulando
centinaia di fatiche che non vuole più ricordare. E poi la
Libia, quello scoglio così pesante per tutti i migranti che
dall'Africa cercano di raggiungere l'Europa: lì Aisha fu
incarcerata, spostata più volte in diversi centri di
detenzione, violentata e picchiata, trattata come una schiava dalle
guardie e dai soldati. Infine, finalmente, la costa del Mediterraneo:
la ragazza era convinta di essere quasi arrivata, ma non sapeva che
il peggio doveva ancora venire.
All'altezza della chiesa di San
Cristoforo Aisha svolta a destra, nell'ansa della strada che forma
una piccola piazzetta: all'angolo della strada, al civico 3, da
qualche tempo il comune di Milano ha aperto uno spazio diurno gestito
dalla cooperativa Farsi Prossimo, dedicato ai rifugiati e ai
richiedenti asilo. È qui che sta andando la donna, che ha
appena ottenuto lo status di rifugiata politica.
Paolo, responsabile del centro, le va
incontro e prova la tentazione di abbracciarla per consolarla: lui sa
perché Aisha è così triste in questi giorni,
gliel'ha raccontato lei stessa poco tempo fa.
In questa settimana cade il terzo
anniversario del suo quarto viaggio dalla Libia verso le coste
dell'Italia. Quarto di cinque, perché solo al quinto tentativo
di attraversare il mare è riuscita ad arrivare fino a
Lampedusa; le altre volte, invece, sono sempre stati intercettati e
riportati indietro.
Ma quel quarto viaggio lei se lo
porterà addosso per sempre. Erano partiti in ottanta su una
barca stracolma, quasi tutti uomini, più sedici donne. Una di
loro era persino incinta. Una volta partiti avevano scoperto di avere
provviste e acqua sufficienti per due soli giorni. Il viaggio fu
tremendo: lo scafista era inesperto, forse ai suoi primi viaggi, non
avevano strumenti di bordo e ben presto persero la rotta. Rimasero in
mare una settimana, prima di essere recuperati e riportati indietro.
Ma in quella lunghissima, tragica settimana morirono in molti. Tra le
donne sopravvisse soltanto lei. Ogni volta che ripensa a quel viaggio
riprova la stessa angoscia di vedere i suoi compagni morire accanto a
lei senza poter fare nulla, rivede i cadaveri buttati in mare, vive
la fatica di dimenticare e andare avanti.
Domani, proprio in occasione di questo
terzo anniversario, si ritroverà con alcuni compagni di quel
viaggio maledetto per pregare insieme per chi non ce l’ha fatta,
una sorta di funerale per quei corpi che non l’hanno mai avuto e
sono rimasti in fondo al mare.
Paolo, quando ha ascoltato la sua
storia, è corso con la mente ai racconti dei reduci dei campi
di concentramento nazisti: quella fatica di andare oltre, quel senso
di colpa per essere sopravvissuti ai compagni pur senza avere alcun
merito in più, quella domanda di senso sulla vita che resta
per sempre.
Eppure, nonostante tutto, lei trova la
forza di andare avanti. Per Aisha, e per chi ha alle spalle un
viaggio come il suo, Lampedusa è un punto di arrivo, il
raggiungimento dell’Europa, di una vita migliore. Per Paolo, e per
gli operatori sociali che come lui lavorano con il mondo dei migranti
e dei richiedenti asilo, l’isola siciliana è il punto di
partenza per una nuova vita, e il loro compito è quello di
facilitare questa nuova esistenza, con corsi di italiano e percorsi
di inserimento lavorativo.
“Ma con calma” - pensa Paolo
girando lo sguardo sugli altri ospiti del centro - “chi arriva qui
spesso è proprio esausto da un viaggio che ha occupato un
pezzo importante della loro vita. Diamo loro una tregua, diamo loro
un tempo per riposare questi animi sfiniti”.
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