venerdì 9 maggio 2014

Casalinghe per scelta o per forza?

La serie tv Desperate Housewives
Dici “casalinghe disperate” e ormai ti immagini un pugno di donne perfette dai capelli ai tacchi, che occupano il tempo scambiandosi torte e pettegolezzi e tuttalpiù assassinando qualche vicino. Ma la realtà italiana è molto lontana dalla nota serie tv americana, anche se ancora non siamo affatto un Paese per donne al lavoro.

Oggi in Italia, infatti, il 53,5% delle donne in età lavorativa fa la casalinga, e secondo il Rapporto Istat 2012 le donne con un lavoro sono solo il 40,7% dell’intera popolazione femminile. Numeri che raccontano come siamo ancora lontani dalla realtà europea, se è vero che da noi in una coppia su tre la donna – tra i 25 e i 54 anni – non percepisce redditi, mentre in Francia la stessa situazione capita in una coppia su dieci e in Spagna in una su cinque. E anche se il numero dei casalinghi uomini è in crescita (secondo i dati Istat sulle forze di lavoro nel 2011 erano 125mila, un dato che ha registrato un +41% dall'anno precedente), sono pur sempre solo l’1,1% delle persone che si dedicano esclusivamente alla cura di casa e famiglia.

Da chi è composta allora questa costellazione di donne escluse dal mercato del lavoro? Quali sono le esigenze, le difficoltà, le storie di questo esercito imponente e silente? “L’etichetta di casalinga ormai si adatta poco a raggruppare situazioni molto diverse tra loro, e le donne spesso rifiutano di definirsi così”, spiega Annalisa Tonarelli, sociologa dell’Università di Firenze che ha coordinato la ricerca “Io lavoro a casa” voluta dall’Assessorato al Lavoro della Provincia di Firenze. Cinquecento i questionari raccolti che hanno indagato nella vita e nelle scelte di altrettante donne, soprattutto mogli e madri tra i 18 e i 65 anni, intercettate in centri commerciali, mercati, scuola, giardini, associazioni pubbliche e, ovviamente, anche attraverso il web. “Abbiamo mappato la situazione e identificato quattro tipologie di non lavoratrici – spiega Tonarelli. – Ci sono le grateful housewives, le appagate: donne tra i 45 e i 50 anni che hanno scelto di dedicarsi alla vita domestica e ai figli, realizzate e privilegiate, che possono contare su un reddito familiare piuttosto alto e sull’aiuto dei genitori, del marito e anche di una colf”. Le tailored housewives invece sono quelle che in passato lavoravano e che poi si sono “adattate” ad occuparsi di casa e figli, ma senza identificarsi con il ruolo tradizionale di casalinga, che sentono come un vestito che rischia di diventare troppo stretto, soprattutto quando i figli crescono e loro vorrebbero tornare a fare altro.

Ci sono poi quelle per cui la rinuncia al lavoro è stata obbligata: perché sono state licenziate o perché scaduto il contratto. Sono quelle che più hanno pagato per la crisi economica o per una maternità. Si tratta delle forzate della casa, le forced housewives, che vivono la dimensione domestica quasi come una punizione e quando si dichiarano casalinghe lo dicono come fosse qualcosa di cui scusarsi. Le altre “obbligate” sono le temporary housewives, le temporanee, istruite e intorno ai 30 anni di età, che nella precarietà del futuro professionale investono nella sfera familiare, come neo mamme, in attesa di un momento più favorevole per rientrare nel mercato del lavoro.

Ma cosa porta alla “casalinghitudine? “La crisi economica incide sicuramente sulla perdita o l’abbandono del lavoro – risponde Tonarelli. – Si instaurano due meccanismi viziosi: da una parte il lavoro domestico diventa una strategia di risparmio nelle famiglie con un reddito basso. Se resto a casa a occuparmi della gestione familiare posso risparmiare sulle spese di colf, baby sitter, cibi pronti… D’altra parte avere uno stipendio in meno abbassa il reddito familiare e aumenta le situazioni di povertà”. Lo confermano anche i dati di Caritas Italiana, secondo cui dal 2009 al 2011, negli anni della crisi, il numero delle casalinghe che si sono rivolte ai centri di ascolto ha registrato un +177%. Quasi la metà di loro (il 42,5%) nel 2012 lo ha fatto per problemi economici, e una su 5 per problemi legati alla mancanza di lavoro.

E poi c’è la solita, maledetta difficoltà a conciliare lavoro e famiglia, come evidenzia anche l’Istat nel suo ultimo Rapporto annuale: nel 2012 una neo madre su quattro ha lasciato o perso il lavoro che svolgeva quando era incinta. Da lì diventa difficile, quasi impossibile, rientrare: per la perdita di contatto che si è avuta con il mondo del lavoro, per scoraggiamento, perché lo sforzo di tenere insieme i pezzi per un’occupazione che spesso non ripaga in termini di reddito e soddisfazione sembra non valere la pena.

“È proprio sulle temporanee che vale la pena soffermarsi. Sono giovani donne istruite che rifiutano di definirsi casalinghe, che danno per scontato la parità di genere, il lavoro delle donne, la divisione dei ruoli in casa, e abbassano la guardia – avverte la sociologa. – Invece la parità si rivela un’illusione, e la loro disinvoltura nell'accettare la dipendenza economica da partner molto orientati alla professione e poco coinvolti nella gestione della casa e dei figli diventa un problema gravissimo”.

Un problema culturale, perché si rischia di fare passi indietro nella parità di genere, “di trasmettere ai figli e alle figlie un modello culturale in cui la donna è dipendente e di passare il concetto che c’è qualcuno che fa per loro: e anche questa è una grave forma di impoverimento”. Un problema dal punto di vista psicologico: “L’espressione casalinga disperata forse è abusata, ma parla di una condizione innegabile di scontentezza, di frustrazione, di solitudine, di perdita di identità e di un senso di inutilità sociale”.

Infine un problema economico, per l’individuo che dipende dal partner, “e soprattutto in una prospettiva sociale – conclude Annalisa Tonarelli. Perché tollerare questa situazione perpetua la crisi in cui viviamo –. L’unico modo che abbiamo di uscire dalla crisi economica è investire sul lavoro, perché solo aumentando la quota di lavoratori che sopportano le spese di uno Stato è possibile garantire un benessere maggiore per tutti. E il bacino del lavoro femminile è quello che oggi va assolutamente potenziato. Più donne lavorano, più un Paese diventa ricco”.


Articolo pubblicato su Scarp de' tenis del numero di marzo 2013

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