Un paio di gambe in tailleur escono da un taxi al lato ovest
della stazione Centrale. Di fronte alla donna del taxi, intanto, alcuni uomini
dei colori di diversi continenti del mondo stanno scendendo dal filobus che
ferma in piazza Luigi di Savoia, prima di proseguire il suo giro della città.
Piazza Duca d'Aosta e la Stazione Centrale |
E così se la ricordano anche i volontari del centro di
ascolto e orientamento di Sos Exodus, fondato da don Antonio Mazzi, che da anni
si occupano di dare aiuto ai senza dimora e ai tossicodipendenti della
Centrale. Quella mattina di novembre infatti, invece di andare a raggomitolarsi
in uno degli anfratti della stazione, aveva spinto la porta di Sos Exodus e
aveva chiesto aiuto.
I volontari non le avevano domandato granché, abituati a
facce e corpi come quelli di Katia: l'avevano fatta sedere, le avevo offerto
qualcosa da mangiare, l'avevano lasciata riposare. Non restò molto tempo, quella
prima volta, ma sarebbe tornata.
La sua era una storia comune, all'epoca, a tanti altri
ragazzi. Giovanissima, aveva deciso di fare da sola e di lasciare la sua
famiglia, in Toscana, per trasferirsi nella metropoli del nord a seguito delle
sue due passioni: il suo ragazzo e la dipendenza dalla droga che li univa. Ma
ben presto entrambe l'avevano tradita. Il suo compagno l'aveva abbandonata dopo
pochi mesi, gli amici si erano pian piano defilati, e lei era rimasta sola,
alcolizzata, strafatta, dormendo in stazione Centrale e prostituendosi pur di
inseguire l'ennesima dose. Come se tutto questo non bastasse, durante una delle
diverse volte che l'ambulanza l'aveva portata in ospedale, la ragazza era anche
stata violentata da un medico.
Maurizio Rotaris, storico responsabile di Sos Exodus,
racconta: «Faccio questo mestiere dal 1985, erano gli anni in cui la diffusione
dell'eroina era al massimo e in cui l'Aids era ancora poco conosciuta e
terrorizzava la gente normale, spaventata dall'idea di essere contagiata anche
solo parlando con queste persone. Per cui di storie di dolore come quelle di
Katia, arrivate così vicino alla morte, ne ho viste tante». Però né lui, né gli
altri volontari, avrebbero scommesso sul cambiamento di rotta che Katia sarebbe
riuscita a dare alla sua vita negli anni successivi.
Sos Exodus la prese in carico, le fece avere la residenza
anagrafica, la affidò all'Istituto Maddalena Grassi, struttura in quegli anni
specializzata nel recupero dei tossicodipendenti e dei malati di Hiv. La cura con
il metadone iniziò a ottenere risultati e pian piano la ragazza riuscì a
risollevarsi. La aiutarono anche nel periodo in cui restò incinta e nacque la
sua bambina: sana, nonostante la malattia della mamma.
Intanto il medico che l'aveva violentata fu condannato a
otto anni di carcere. Per Katia era la prima battaglia vinta da quando era una
bambina, e questo le ridiede un po' di coraggio: il coraggio di non lasciarsi
andare completamente, ma ricominciare a lottare.
Quando, dopo alcuni anni, era tornata a trovare gli amici di
Sos Exodus, gli operatori l'avevano guardata senza riconoscerla. «Ho fatto
fatica a capire chi fosse, era completamente cambiata. Era vestita bene, si era
fatta fare una dentiera e portava una parrucca. Tutto molto discreto – parla
ancora Rotaris – mi è parso un miracolo. Ci ha raccontato di essere stata
assunta da una rivista di moda per cui oggi
fa relazioni pubbliche».
Anche per Katia è un miracolo, se si guarda alle spalle. Un
miracolo aver trovato delle persone che l'hanno aiutata, anche con severità, ma
che hanno creduto che lei potesse farcela. E lei ce l'ha fatta.
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