lunedì 18 marzo 2013

Fermata: Piazza Luigi di Savoia


Un paio di gambe in tailleur escono da un taxi al lato ovest della stazione Centrale. Di fronte alla donna del taxi, intanto, alcuni uomini dei colori di diversi continenti del mondo stanno scendendo dal filobus che ferma in piazza Luigi di Savoia, prima di proseguire il suo giro della città.
Piazza Duca d'Aosta e la Stazione Centrale
Katia sente un brivido ricordando la piovosa mattina di dieci anni prima, quando era lei a scendere da qual bus che, insieme alla stazione Centrale, era diventato la sua casa. Allora era ridotta a una larva umana: aveva venticinque anni ma era pelle e ossa, senza denti, senza capelli. Le forze prosciugate dall'Aids e dalle centinaia di siringhe di eroina.
E così se la ricordano anche i volontari del centro di ascolto e orientamento di Sos Exodus, fondato da don Antonio Mazzi, che da anni si occupano di dare aiuto ai senza dimora e ai tossicodipendenti della Centrale. Quella mattina di novembre infatti, invece di andare a raggomitolarsi in uno degli anfratti della stazione, aveva spinto la porta di Sos Exodus e aveva chiesto aiuto.
I volontari non le avevano domandato granché, abituati a facce e corpi come quelli di Katia: l'avevano fatta sedere, le avevo offerto qualcosa da mangiare, l'avevano lasciata riposare. Non restò molto tempo, quella prima volta, ma sarebbe tornata.
La sua era una storia comune, all'epoca, a tanti altri ragazzi. Giovanissima, aveva deciso di fare da sola e di lasciare la sua famiglia, in Toscana, per trasferirsi nella metropoli del nord a seguito delle sue due passioni: il suo ragazzo e la dipendenza dalla droga che li univa. Ma ben presto entrambe l'avevano tradita. Il suo compagno l'aveva abbandonata dopo pochi mesi, gli amici si erano pian piano defilati, e lei era rimasta sola, alcolizzata, strafatta, dormendo in stazione Centrale e prostituendosi pur di inseguire l'ennesima dose. Come se tutto questo non bastasse, durante una delle diverse volte che l'ambulanza l'aveva portata in ospedale, la ragazza era anche stata violentata da un medico.
Maurizio Rotaris, storico responsabile di Sos Exodus, racconta: «Faccio questo mestiere dal 1985, erano gli anni in cui la diffusione dell'eroina era al massimo e in cui l'Aids era ancora poco conosciuta e terrorizzava la gente normale, spaventata dall'idea di essere contagiata anche solo parlando con queste persone. Per cui di storie di dolore come quelle di Katia, arrivate così vicino alla morte, ne ho viste tante». Però né lui, né gli altri volontari, avrebbero scommesso sul cambiamento di rotta che Katia sarebbe riuscita a dare alla sua vita negli anni successivi.
Sos Exodus la prese in carico, le fece avere la residenza anagrafica, la affidò all'Istituto Maddalena Grassi, struttura in quegli anni specializzata nel recupero dei tossicodipendenti e dei malati di Hiv. La cura con il metadone iniziò a ottenere risultati e pian piano la ragazza riuscì a risollevarsi. La aiutarono anche nel periodo in cui restò incinta e nacque la sua bambina: sana, nonostante la malattia della mamma.
Intanto il medico che l'aveva violentata fu condannato a otto anni di carcere. Per Katia era la prima battaglia vinta da quando era una bambina, e questo le ridiede un po' di coraggio: il coraggio di non lasciarsi andare completamente, ma ricominciare a lottare.
Quando, dopo alcuni anni, era tornata a trovare gli amici di Sos Exodus, gli operatori l'avevano guardata senza riconoscerla. «Ho fatto fatica a capire chi fosse, era completamente cambiata. Era vestita bene, si era fatta fare una dentiera e portava una parrucca. Tutto molto discreto – parla ancora Rotaris – mi è parso un miracolo. Ci ha raccontato di essere stata assunta da una rivista di moda per cui oggi  fa relazioni pubbliche».
Anche per Katia è un miracolo, se si guarda alle spalle. Un miracolo aver trovato delle persone che l'hanno aiutata, anche con severità, ma che hanno creduto che lei potesse farcela. E lei ce l'ha fatta.

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